domenica 6 marzo 2011

Amministrazione Obama, consuntivo di metà mandato

Obama tra i giovani democrat
di Walter Veltroni
(articolo pubblicato in esclusiva sul numero ottobre / novembre di Wow)

“Mi prendo tutta la responsabilità. Il potere è dei cittadini, io sono qui per servirli, ho il dovere di ascoltare il messaggio”. Così, all’indomani del voto di mid-term, Barack Obama ha commentato, con grandissima onestà e altrettanta franchezza, la secca sconfitta dei democratici. Una sconfitta che in effetti riguarda direttamente il presidente americano, sottoposto, come d’altra parte era già successo a molti dei suoi predecessori, compresi i più recenti, da Reagan a Clinton fino Bush (poi tutti vittoriosi nelle successive elezioni presidenziali), al severo giudizio degli elettori. Ma cosa ha significato, al di là del dato inequivocabile dei sessanta deputati democratici in meno al Congresso, questo voto? Obama ha detto di aver recepito il messaggio, ma quel che è successo significa anche, per caso, che quelle due parole, change, cambiamento, e hope, speranza, attorno alle quali aveva costruito la sua narrazione e articolato le sue concrete proposte nella eccezionale campagna elettorale del 2008 hanno già perso la loro forza, la loro capacità evocativa, il loro profondo senso politico? Vorrei dirlo con chiarezza: io credo di no, sono convinto che non sia così. E non solo perché lo stesso Obama era perfettamente consapevole delle difficoltà sin dalla sera della sua straordinaria vittoria, quando rivolgendosi alla gigantesca folla che lo salutava disse: “la strada che ci aspetta è lunga e in salita”. Sono convinto che la speranza sia ancora viva e che il cambiamento sia ancora possibile, per il semplice motivo che è stato avviato, è in corso, e se non tutto è proceduto con la velocità e la profondità che si poteva auspicare, nessuno che abbia un minimo di onestà intellettuale può negare la realtà delle cose. A cominciare da un fatto: se l’economia americana sente ancora i morsi della crisi, se la disoccupazione è un problema bruciante, vorrà forse dire che non è stato fatto abbastanza, ma non che nulla si è fatto per fronteggiare quella che, non lo si dimentichi mai, è una delle tristi eredità dell’Amministrazione Bush. Tre milioni di posti di lavoro in più sono un fatto, non una opinione. E che dire delle regole per i mercati finanziari e di quella vera e propria rivoluzione rappresentata dall’avvio di una riforma sanitaria che servirà a tutelare milioni di cittadini non così poveri da avere qualche forma di assistenza ma nemmeno così ricchi da potersi permettere una costosa assicurazione privata? C’è poi, in politica estera, l’inizio di un nuovo corso, nel segno del multilateralismo e della cooperazione con il resto della comunità internazionale, voltando finalmente pagina rispetto al tempo dell’unilateralismo, delle presunzioni di autosufficienza o di teorie aberranti come quella della “guerra preventiva”. La mano tesa al mondo islamico, l’aver imboccato con decisione la strada del disarmo nucleare, l’avvio del ritiro dall’Iraq, il tentativo di ricucire il filo dei negoziati in Medio Oriente sono tutti passi conseguenti, figli di una visione che vuole far recuperare all’America quel ruolo di leadership morale che nella storia del Novecento spesso è stato suo, con beneficio del mondo intero. Non è un caso che i repubblicani, e il nuovo e per molti versi inquietante fenomeno dei Tea Party, si siano scatenati tanto contro il Presidente in carica: il cambiamento ai conservatori fa paura, e il loro tentativo è di fermarlo sul nascere, prima che si consolidi, prima che l’azione dell’Amministrazione democratica consenta di uscire dalla crisi ereditata dal recente passato e cominci a dispiegarsi in tutte le sue potenzialità. Un rischio, su tutti, Obama deve però evitare: quello del tecnicismo, del pragmatismo, che in politica serve, per carità, ma non privo di idealità, di capacità evocativa e se necessario di radicalità. Forse è proprio questo, però, il messaggio che Obama ha per fortuna compreso, perché è lui stesso ad aver detto, sempre all’indomani del voto: “Alla Casa Bianca corro il pericolo di vivere come in una bolla. Quando ero un candidato gli americani si identificavano con la mia storia personale. Ora ho bisogno di tornare più spesso là fuori”. E’ così. In America come ovunque, è fuori dai palazzi, lontano dalle alchimie di cui troppo spesso la politica è intrisa, che si  possono trovare le risposte e le soluzioni alle domande e ai problemi delle persone.


Nessun commento:

Posta un commento